PIETRE D'INCIAMPO
 
Crescimbini Pietro Giuseppe
di anni 85
 

Nato a Montù Beccaria (PV) l'8 settembre 1917, agricoltore. Socialista, costituisce con alcuni amici il primo gruppo della Brigata Matteotti, poi diventata Divisione "Dario Barni". Col nome di battaglia "Sangue", partecipa a numerose azioni di guerriglia. l'11 settembre 1944 viene catturato a Barostro, Tradotto alle carceri di Varzi e poi a quelle di Piacenza e Parma, passa per il campo di Bolzano e infine, viene deportato a Mauthausen e assegnato al sottocampo di Gusen II. Crescimbini è uno dei pochi sopravvissuti al lager. 

Pubblichiamo la testimonianza raccolta da Pierangelo Lombardi direttamente da Pietro Crescimbini (Barba Pinu) circa la sua prigionia tratta dal libro “I DEPORTATI PAVESI NEI LAGER NAZISTI – Collana di monografie degli Annali di storia pavese -n.1”.                                                                           

"Via Piacenza, Parma e Verona, siamo arrivati al campo di transito di Bolzano verso la metà del mese di gennaio 1945. Qui ci hanno dato il primo numero di matricola e siamo rimasti ad aspettare un po' di giorni finché, la mattina del 1° febbraio, ci hanno tirati fuori sul piazzale e hanno cominciato a chiamare i nomi, lentamente, fino al pomeriggio. Nel frattempo, noi stavamo sempre là fuori, in piedi. Siamo stati scelti in settecento e caricati sul treno; 80-90 per vagone, siamo partiti destinazione Mauthausen. Tre giorni di viaggio duro, l'arrivo in paese la mattina del 4 febbraio, poi il trasferimento a piedi fino al campo; subito ci hanno allineati nudi in mezzo alla piazza, ci hanno mandato sotto le docce, ci hanno depilato completamente e fatto la pulizia del corpo. Prima di avere dei vestiti siamo rimasti bell'e nudi nelle baracche per tre o quattro giorni. Quello è stato il collaudo; in poco tempo muoiono il 60% dei deportati del nostro gruppo. Ancora venti giorni di quarantena, trascorsi nella baracca 18, e poi, una mattina, doveva essere il 20-21 febbraio, siamo stati trasferiti al campo di Gusen II Siamo arrivati alla sera, sotto la neve. Di nuovo nudi, ci hanno cacciati nelle baracche. Poco dopo è suonato l'allarme e siamo stati costretti ad uscire completamente nudi sotto la neve che scendeva fittissima. Cosa pensavamo? È dura dirlo. Niente. Passavano i giorni ed eravamo sempre più convinti che prima o poi sarebbe venuta la nostra ora. Qualche voce su Mauthausen, strada senza ritorno, l'avevamo sentita già a Bolzano. Poi, visto il viaggio, giunti in quell'inferno, scoprendo che un giorno eri insieme a uno e il giorno dopo costui era morto, ti convincevi che a casa non saresti più tornato. In quella baracca siamo rimasti tre giorni. Il quarto giorno siamo stati condotti al lavoro nelle cave. Un lavoro duro. Dovevamo scavare le gallerie, fare le armature di calcestruzzo, sistemare i pavimenti. Dietro di noi venivano quelli della Messerschmidt. Installavano i banchi, predisponevano le attrezzature, mettevano in piedi vere e proprie officine sotterranee; noi preparavamo la struttura, loro arrivavano con tutti gli strumenti necessari per costruire gli apparecchi. I turni duravano un mese ed erano due di dodici ore filate, dalle sei di mattino alle sei di sera, alle sei di mattino. L'unica interruzione consentita era di mezzora, rispettivamente a mezzogiorno o a mezzanotte. Dei due turni, nonostante le apparenze, il migliore era quello della notte. Lì te la cavavi un po' di più. Il controllo era meno rigido e potevi andare un po' più adagio, fino a fare la metà del lavoro che si faceva nell'altro turno. Lo sforzo più grande era comunque di stare svegli e di non addormentarsi in piedi. Ogni mattina, od ogni sera, dipendeva dal turno, lasciavamo Gusen per San Giorgio, dove erano le gallerie, distante quattro chilometri. Ci caricavano sui treni a scartamento ridotto e, tanto alla partenza che all'arrivo, ogni vagone era vigilato da una parte e dall'altra da un soldato tedesco con un cane. Arrivati a destinazione, ci facevano scendere dalla pedana e ci spedivano in galleria. Lì dentro i Meisters formavano immediatamente gruppi di 10, 15, 20 persone secondo l'ordine in cui scendevamo da treno e ci assegnavano un lavoro ogni volta diverso (è forse bene precisare che noi di militari tedeschi durante la detenzione ne abbiamo visti ben pochi; si vedevano al casello con la stanga, all'entrata del campo o in qualche ispezione. Per il resto, dai Meisters ai Kapò, erano tutti civili). Bisognava forare la pietra con il piccone e con la pistola pneumatica, caricare la terra e i massi sui vagoncini, allungare man mano il cingolo, piantare i picchetti per fare l'armatura, costruire i pavimenti con tasselli di legno e catrame. Il lavoro più brutto, massacrante, era senz'altro quello di scavo. Era difficile resistere per dodici ore di fila con la pistola pneumatica fra le mani. per i primi giorni qualcosa almeno si riusciva a fare. Dopo quindici giorni, soltanto però, non riuscivo più nemmeno a impugnarla e cercavo di vincere il dolore e di proteggere le mani tutte piagate avvolgendole con della carta. Quella era l'unica cura! In poco meno di tre mesi l'uomo di 80 chili che ero al momento dell'arresto era arrivato a pesare non più di 32/ 33 chili. Questo perché anche gli altri lavori non è che fossero da meno. Quando, ad esempio, arrivavano i vagoncini col calcestruzzo bisognava rovesciarlo e poi col badile lo si gettava da terra su in alto fino alla prima impalcatura. Da lì ancora più in alto, a catena, sugli altri piani fino alla sommità per sostenere le pareti della galleria. E intanto ci davano continue battute perché procedessimo alla svelta. Qualcuno stremato non ce la faceva più, sveniva, cadeva per terra e lo abbandonavano in mezzo ai binari. Guai a soccorrerlo! Bisognava lasciarlo là, lasciarlo morire, altrimenti uccidevano te. Soltanto successivamente li caricavano sul vagoncino, morti o moribondi che fossero poco importava e li avviavano al forno crematorio. Nel tratto scavato giornalmente morivano tante volte dai quindici ai venti deportati. Nella loro organizzazione della morte, l'abbiamo saputo dopo, i nazisti previsto a Gusen II un deportato non resistesse più di tre mesi (e certo l'altissimo numero di morti del campo non è un caso). Diversamente da altri sottocampi, dove ogni settimana si faceva la scelta di coloro che, incapaci di resistere ancora, venivano inviati al campo madre per essere eliminati, a Gusen esisteva già il forno crematorio per la distruzione immediata dei cadaveri. Quante volte ci capitava di tornare dalla galleria stravolti dalla fatica e di trovarci davanti agli occhi cinquanta, cento morti, tutti accatastati da caricare sul carrettino e da portare al forno crematorio! Dovevamo girare per il campo e caricare i morti noi che neanche ce la facevamo a stare in piedi! Con quello che ci davano da mangiare, poi! A mezzogiorno un mestolo di quella brodaglia che facevano e una pagnotta (una volta addirittura mezza) da dividere in otto, in sedici o in ventiquattro, secondo i giorni. In ogni caso, intendiamoci, era sempre cibo verde e muffo come il verderame. Quando andavamo a lavorare aggiungevano alla razione un po' di caffè nel "misky", il recipiente che ci serviva per bere. Bisogna dire che il bere poteva essere, in quell'inferno, un'azione rischiosa. Spesso, nel corso delle perforazioni, usciva qualche vena d'acqua, ma ti proibivano tassativamente di bere. In seguito, abbiamo imparato da soli, tristemente, a controllarci quell'acqua assorbita dai nostri corpi denutriti provocava spesso volentieri attacchi di diarrea e bastava che i Kapò dall'odore se ne accorgessero perché ti spedissero immediatamente al forno crematorio. Ancora una volta, data l'esistenza del forno, a Gusen II non avevi quella settimana di tempo per poterti riprendere come succedeva in altri kommando.

D’altra parte, non c’era bisogno della diarrea per essere uccisi. Per farci morire non risparmiavano niente. Se in baracca ti vedevano parlare, venivano lì, ne prendevano quattro o cinque e li buttavano fuori in mezzo alla neve e al gelo con la sola casacchina leggera che avevano indosso. Spesso sul lavoro i kapò si divertivano a farti fare lavori inutili: magari ti costringevano a trasportare in quattro o cinque da un punto all’altro della galleria travi enormi e se cadevi, se non ce la facevi a resistere, erano botte e legnate finché ti finivano.

In quelle condizioni arrivarono i primi giorni di aprile. Alcune voci cominciavano a circolare. Si diceva che gli Alleati erano a meno di duecento chilometri; ci si voleva convincere che sarebbe durata ancora poco, forse meno di un mese. E la speranza tornava quando, durante l’ultima settimana di lavoro, uscendo dalla galleria per caricare il calcestruzzo sui vagoncini, sentivamo i cannoni sparare. Cominciavamo a pensare davvero che forse ce l’avremmo fatta, se durava ancora poco. Finalmente il 2, 3, 4, 5 maggio, dal giovedì alla domenica, nessuno ci venne a prelevare per portarci al lavoro e restammo chiusi nelle baracche. La cosa ci stupì e capimmo che stava succedendo qualcosa di grosso. La sera del 5 maggio alcuni di noi si fecero coraggio e uscirono dalla baracca. Il campo era stato abbandonato. C’eravamo solo noi; dei tedeschi e dei kapò nemmeno l’ombra.

Ci attendevano ancora disagi e prove difficili, ma ormai si poteva dire che era davvero finita."

 
 
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RICORDATO NEI SEGUENTI LUOGHI:
 
Montù Beccaria - Piazza Umberto I°
Pietra d'inciampo posta il 05 maggio 2022 a Montù Beccaria (PV) in piazza Umberto I°       ...
 
Coordinate GPS del Luogo del Ricordo:
45.038117, +09.313000
45°02.287', +09°18.780'
45°02'17.22", +09°18'46.80"
 
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